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Il fundraising per la politica: i donatori non sono limoni

 

Le elezioni regionali di settembre 2020 sono state l’ennesima occasione perduta per il fundraising per la politica. Se nella precedente tornata alcuni candidati alla presidenza avevano provato ad utilizzare almeno un paio di tecniche (con risultati scarsi), questa volta c’è anche chi ha deciso di non aprire nemmeno un proprio sito web.

Invece di fare passi avanti, ne facciamo molti indietro dimenticando che la politica è partecipazione attiva. E’ sicuramente più facile chiudere una sezione di partito che insegnare ai propri militanti a raccogliere fondi o a cercare e gestire volontari.

Nel nostro Paese sono pochissimi gli esempi di offerte di “partecipazione economica” a sostegno della politica. Quanti partiti o candidati chiedono sostegno? O meglio, chiedono e offrono partecipazione?

Dimentichiamo spesso e volentieri che la democrazia ha un costo e che il 95% dei Paesi del mondo finanzia pubblicamente i partiti. Noi in Italia non lo facciamo più. Le soluzioni, a mio parere, sono due: tornare al finanziamento pubblico oppure adottare, in pieno, le tecniche di fundraising.

La maggior parte dei partiti limita la raccolta fondi al tesseramento (peraltro sempre più esiguo), al 2 per 1000 (pochissime le campagne di comunicazione) e a quale cena elettorale solo quando siamo vicini alle elezioni. Se tutto questo fosse fatto utilizzando le strategie proprie del fundraising, sarebbe già un buon risultato ma accade raramente.

Cosa vuol dire sostenere un partito con una donazione? Cosa vuol dire sostenere una campagna elettorale con una donazione? Vuol dire non solo investire tempo o denaro, ma anche offrire partecipazione. Se dono, allora ti voto. Se dono, sono convinto che quello che stai facendo cura i miei interessi di cittadino. Se dopo la prima donazione, passo ad una seconda, ad una terza e così via vuol dire che sono sempre più convinto di quello che tu partito o candidato stai facendo.

 

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